La Generazione X - The Doom Generation (di G. Araki, 1995)

 

La generazione anni 80, quella che vive(va) nel '90, è una generazione perduta, preda del destino e della storia, una generazione sull'orlo del precipizio, un po' come raccontava Joel Schumacher nel suo cult vampiresco. Il problema è la mancanza di un destino da mettere in sesto, uno scopo ultimo da inseguire. La generazione X viaggia e non sa dove andare, alla deriva perchè fuori dalla scatola, fuori dai confini prestabiliti. L'apertura alla globalizzazione, alla mercificazione di se stessi e alla fine un'esclamazione antitetica: questa strada è senza via d'uscita!

Nel 1995 il regista underground Gregg Araki girò un film, il secondo capitolo della trilogia Teenage Apocalypse Trilogy: The Doom Generation.  

Jordan White ed Amy Blue sono una giovane coppia che si imbarca in un viaggio senza meta on the road. Incontrano Xavier Red ad un rave e lo prendono a bordo ma le cose sfuggiranno loro di mano. Tra omicidi, risse e sesso a tre, il viaggio continuerà verso il nessun dove.


L'incertezza è il mostro più crudele della nostra epoca, colui da cui non possiamo fuggire perchè ci taglia le gambe facendoci annaspare nel non senso. E il bello è che lo fa senza clamore, lasciandoci quella sensazione di libertà di cui siamo stati derubati. Un imbroglio, l'abbattimento delle barriere che fa tabula rasa attorno a noi e poi ne crea altre, nuove, invisibili. 
Jordan e Amy sono l'Adamo e Eva di questo mondo sporco e cattivo, vittime spensierate in fuga dalle regole non scritte che uccidono il loro sogno d'amore. Perchè l'amore è una bandiera dietro cui si nascondono, il sudario dei loro sogni infranti. 
"Mi sento come un criceto incastrato nel culo di Richard Gere!" afferma Jordan, debole e lagnosamente poetico al contrario dell'intraprendente fidanzata. Una frase trash e infantile, che però descrive uno stato d'animo opprimente: siamo intrappolati e impotenti nelle periferie del sistema. Perchè Doom Generation è un viaggio nei sobborghi sociali, un ruzzolare tra le strade sporche e prive di gioia determinando un effetto valanga che travolge tutti i confini: quello di eterosessualità, quello di morale, quello di giustizia. E una volta che la caduta è iniziata non si può più arrestare e, inevitabilmente, si conclude con uno schianto. 


Il viaggio iniziale (e iniziatico) di Jordan e Amy è una fuga fatta di vaffanculo e baci agrodolci tra musica industrial e doritos croccanti. Un "andiamo via" che sembra un "amiamoci lontano da qui", ma l'amore è solo una scusa, un bisogno d'affetto libero dai clichè. Ecco che il viaggio diventa quindi una ricerca. Nel mentre incontrano Xavier. Lui è uno psicopatico borderline e ce ne rendiamo conto subito. Allo stesso tempo è il simbolo della libertà che rompe gli argini, che va ovunque e fa tanta paura restando comunque attraente: il fascino della morte, eros e thanatos o, più semplicemente, la parvenza di un potere negato e desiderato.

Anche Xavier però è un bambino, anche la sua è una scoperta del mondo o contro il mondo, come un viaggio kamikaze. La sua violenza è infantile, apparentemente senza senso ma determinata dal desiderio di essere contro, quasi un'affermazione della propria individualità. Il terzo del gruppo cerca di portare il proprio demone (quello tatuato sul suo pene) come una medaglia: l'autodistruttività è solo apparente, il vestito maledetto che gli serve per apparire adulto dissimulando l'insicurezza che lo dilania. 
Tra lui, Jordan e Amy si viene a creare un triangolo sessuale e amoroso di compensazione: se il rifiuto del mondo che non gli appartiene li rende indeterminati, la creazione di una culla in cui rifugiarsi diventa l'unica realtà in cui vale la pena vivere ed essere se stessi. La sperimentazione sessuale, ancora una volta, è il passaggio verso la realizzazione individuale, tre elementi che si interscambiano fino a fondersi mentre tutto il resto, la violenza, il dolore e la gelosia, viene sbattuto fuori. Non a caso gli ambienti diventano sempre più grandi, passando da una macchina a una camera di motel fino ad arrivare ad un magazzino abbandonato, man mano che la scoperta di se prende il posto dell'incertezza. Così ogni personaggio acquisisce sicurezza, cresce e cancella le incomprensioni e le diffidenze, si migliora in un certo senso proprio attraverso quel processo di compensazione.
Ma è solo un'illusione, uno scherzo del destino beffardo, perchè alla fine il mondo ti assorbe o ti uccide, non per un motivo particolare ma perchè le cose vanno così. E l'età adulta non è in un certo senso adattarsi, scendere a compromessi?


Akari dirige un film apparentemente estremo ma che io definisco semplicemente sincero (e chi lo reputa estremo ha visto veramente poco cinema). Costruisce un'opera andando contro le regole hollywoodiane: un road movie ambientato prevalentemente in interni, un linguaggio senza mezzi termini, coreografie sessuali che sfiorano il soft-core arrivando a raccontare lo sguardo dei suoi personaggi in temini onirici, con un certo gusto weird e non-sense. Non vuole spiegare il perchè delle cose e questo è sempre stato ritenuto un limite. Semplicemente a lui non gliene può fregar di meno: non c'è un perchè, altrimenti dove sarebbe la problematica? Lo stesso finale, che sembrerebbe un nulla di fatto, è assolutamente perfetto: non ci sono coordinate da seguire, non c'è inizio o fine, è solo un isola nel deserto.  
Lo scopo è essere cattivo, colpire con violenza i simboli di una generazione precedente e con essi quelli di mille altre. Così una madonnina diviene strumento per sodomizzare, il 666 marchia l'infernale babele di linguaggi e modi di fare, il corpo racconta storie che non dovrebbero essere raccontate e il mostro dell'incertezza divora tutto quello che incontra, senza uno scopo. Il muro di Berlino è caduto, i confini si sono allargati, il mondo è andato avanti. Però si piange per aver investito un cane, ahahah, risate.

Akari dice che quel che c'è non gli piace. Il divismo non gli appartiene, il cinema è rimasto indietro. Per questo si ispira a Lynch e a Tarantino, a Stone e all'hardcore orientale e poi va oltre. Non sempre funziona quello che fa ma lo stile è ironico e grottesco, lo splatter fumettistico, i personaggi sono al di fuori dei canoni, sconvenienti e sporchi come il mondo che li circonda. Eppure la purezza del sentimento non è ancora sfumata, lì, da qualche parte. Un trip dissacrante e ingenuo, che pecca di un simbolismo infantile e di una certa faciloneria nei dialoghi. La ripetitività invece è intrinsecamente strutturale all'opera.


Tra gli attori la bellissima Rose McGowan che non disdegna di mostrare il suo corpo, il suo rossetto rosso e gli occhialoni scuri. E dire che all'inizio il ruolo sarebbe dovuto essere di Jordan Ladd. La colonna sonora è complemento del film e si destreggia tra industrial e hard rock. 

Insomma, Doom Generation è un delirio, un atto di coraggio praticamente snobbato dal mondo intero che può irretire, irritare, farsi amare e comprendere. Imperfetto e strampalato, però almeno qualcuno ci ha provato a dipingere (senza voler far cassa) quella massa informe che è la generazione x e solo per questo merita di essere un cult.   

"La vita ogni tanto sa di merda. Stacci."


Anche questa recensione è dedicata a S.

Commenti

  1. Cult assoluto, sì, con tutti i suoi difetti e le sue imperfezioni e le cose che irritano anche me, resta comunque una perla di un certo tipo di cinema invecchiato troppo presto, per colpa degli imitatori che non ci hanno capito un piffero.

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  2. Un cult dell'epoca che non mi capita di rivedere da almeno una decina d'anni.
    Dato che quasi non me lo ricordo, una nuova visione non farebbe male.

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  3. gregg araki è praticamente incapace di girare film che non siano dei piccoli grandi cult-cool.
    questo non fa eccezione...

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  4. piuttosto che rivederlo,preferisco farmi prendere a pedate nelle palle da rhona mitra,amber heard,e quella che ha fatto cry wolf.

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  5. @ilgiornodeglizombi: sì, il pregio di questo film è la sincerità, il non voler far cassa, un genere che poteva esistere solo in questi termini.

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  6. @MrJamesFord: anche io l'ho rivisto dopo molto molto tempo... l'effetto è indubbiamente diverso, risaltano tutti i difetti, ma il fascino resta immutato

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  7. @Marco: sinceramente ho visto solo due suoi film e questo, tra i due, è l'unico che mi sia rimasto impresso. Ma come ho detto più su, è passato tanto tempo.

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  8. @babordo76: ci avrei scommesso che, se pur l'avevi visto, ti aveva fatto schifo :D

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