Sale, tequila e limone (di Frank Romantico, racconto)





“Sale, tequila, limone”.
“Sale, tequila, limone”.
“Sale, tequila, limone”.
“Sale, tequila, limone”.
“Sale, tequila, limone”.

Al sesto giro le ragazze erano già cotte: due con la testa poggiata sul bancone, una per terra, l’altra che era scappata di corsa in bagno facendo ruzzolare uno sgabello. Solo Lucia era rimasta seduta, dritta e lucida, a distribuire giri di tequila come una maitresse di tempi passati.

“Sale, tequila, limone”.
“Sale, tequila, limone”.
“Sale, tequila, limone”.

Era stato allora che il vecchio era saltato in piedi e aveva iniziato ad urlare sbiascicando le parole, in modo tale che nessuno riuscì a capirlo.

Giovanni era in un angolo e come ogni ubriaco che si rispetti non riusciva a tenere gli occhi aperti. Se ne stava tranquillo sullo sgabello, piegato a guardare le macchie di bagnato sul bancone e le luci verdi del tavolo da biliardo. Ogni volta che il bicchierino da cicchetto gli arrivava vicino lui lo afferrava, leccava il sale, mandava giù la tequila e succhiava il limone. Meccanicamente. Sembrava una catena di montaggio. Giovanni era un operaio del bere.

Erano circa le cinque del mattino quando uscì dal locale per tornarsene a casa. Aveva la bicicletta legata a un palo ma non aveva intenzione di prenderla: già si immaginava mentre correva zigzagando per la strada facendo la figura dello scemo. Solo il pensiero lo fece accasciare al muro con le labbra rosso pomodoro tremanti e il respirò che gli si strozzava solo solo nella gola. Sarebbe andato a piedi, incrociando le gambe e piegando le ginocchia fino quasi a toccare l’asfalto, senza la paura di schiantarsi contro un marciapiedi.
“Non passano mai macchine alle cinque del mattino.”, disse a un tratto una voce al suo fianco. Il vecchio del bar l’aveva affiancato senza nemmeno farsi accorgere e ora gli camminava accanto, una bottiglia di rum nella mano e il bastone nell’altra, un pezzo di quercia levigata con il manico corto e curvo, che lui stringeva con la forza dell’alcol.
Giovanni lo guardò e annuì.
“Tu immagina il mondo alle cinque del mattino.”, continuò il vecchio “un mondo fatto di case e di strade deserte. Sono quasi tutti nel loro letto…”, smise di parlare per portarsi la bottiglia alla bocca “… qualcuno si è già svegliato per andare a lavorare. Lo facevo anche io, quando ero pescatore. Alle cinque del mattino ero già in mare e ricordo che per strada a quell’ora non c’era nessuno. Solo qualche anima come la nostra, come adesso.”.
Giovanni faceva fatica a seguirlo. Era concentrato sul mantenere una traiettoria diritta, mentre il vecchio andava segnando il passo col bastone e dondolava la bottiglia mezza vuota come a volersi dare un ritmo.
“Ero forte e bello, a quei tempi,”, aggiunse dopo qualche istante di silenzio “avevo una ragazza di nome Claudia. Vivevamo insieme. Lei si svegliava con me tutte le mattine e mi preparava il caffè e lo zabaione. Poi mi preparava i vestiti che sistemava piegati e ordinati su una sedia e mi salutava con un bacio sulle labbra, un momento prima di uscire. Io scendevo le scale e lei rimaneva sulla soglia della porta, finché non ero per strada. A quel punto andava alla finestra e mi guardava camminare verso il porto. Io lo so, perché alzavo lo sguardo e la vedevo sempre lì. Ci guardavamo un attimo ancora e poi io potevo andare in mare tranquillo. Abitavamo vicino il porto e…”
“Vecchio!”, lo interruppe improvvisamente Giovanni senza guardarlo “dopo mezzogiorno va vicino a qualche scuola e abborda qualche ragazzino che sta tornando a casa. Ai ragazzini piacciono questi racconti. Vai a pescare da un’altra parte, qui hai sbagliato stagno!”.
Il vecchio si zittì e lo fissò per qualche secondo.
“Tu ce l’hai la ragazza?”, chiese a un tratto.
Giovanni perse l’equilibrio, le gambe gli si incrociarono e i piedi gli si piegarono all’indentro. Cadde rumorosamente colpendo l’asfalto con il mento. Quando alzò la testa vide le scarpe del vecchio, di cuoio marrone con la punta sporca di fango, che lo guardavano sorridendo dalla suola semi aperta. Il vecchio non disse nulla, osservò Giovanni rialzarsi e poi avvicinarsi al finestrino di un’auto parcheggiata per controllare che fosse tutto a posto: aveva i palmi scorticati e i jeans gli si erano strappati all’altezza del ginocchio destro, tutto sbucciato. Perdeva un po’ di sangue dal mento. “In fondo è tutto a posto”, pensò “sono vivo”. Si girò e vide che il vecchio era ancora lì, dove l’aveva lasciato a fissarlo.
“Qui c’è bisogno di una bevuta”, disse a un tratto quello, riprendendo a camminare.
Fu Giovanni a seguirlo, questa volta. Gli si mise ai talloni, mezzo zoppicando e mezzo imprecando. A pensarci bene non sapeva più nemmeno dove si trovasse, perché tutto gli era iniziato a girare vorticosamente attorno e il vecchio ubriaco era l’unico punto di riferimento rimasto, più per il “clap” “clap” del bastone sull’asfalto e per quel cappellaccio a falde strette che portava calcato in testa che oscillava a destra e a sinistra come la testa di una matrioska.
Camminarono per quasi mezz’ora, fino a che non arrivarono a un vecchio palazzo in ristrutturazione. L’aria era umida e sporca e si attaccava ai palazzi facendo cadere il suo intonaco come un vecchio vestito consumato. Il vecchio tirò fuori un paio di chiavi vecchie e grandi e aprì il portone, che tenne fermo con una mano invitando Giovanni a entrare.


Abitava al terzo piano. Salire le scale fu un’impresa, alte e strette com’erano. Con fatica riuscirono ad arrivare davanti a una porta di legno mezza rotta, che chissà quanti anni aveva.
Il vecchio fece scattare la serratura e la spalancò, poi superò l’uscio perdendosi in un salone pieno di scatoloni e vecchie chincaglierie sistemate alla rinfusa. La stanza era miseramente arredata con mobili vecchi quanto lui. Giovanni rimase un attimo sulla soglia, poi decise di seguire il padrone di casa e si richiuse la porta alle spalle.

Il vecchio si era accomodato su una poltrona scolorita con un tema floreale raffigurato sui cuscini. Giovanni lo raggiunse a passo incerto e si sedette su una sedia in vimini vicino la finestra. La finestra dava su un piccolo cortile abbandonato nell’incuria, che si apriva sul retro del palazzo.
“Non ci vive più nessuno qui. Sono l’ultimo inquilino. L’affitto costa poco. Casa vecchia era più bella ma quando Claudia andò via decisi di lasciarla. Troppi ricordi…”.
“Sei invecchiato male.”, disse Giovanni guardandosi in giro. Il mondo aveva smesso di girare proprio in quella piccola stanza sporca e maleodorante, lasciata nel disordine. Il vecchio allungò un braccio verso un mobiletto accanto a lui e prese due bicchieri opachi con una sola mano. Nell’altra teneva ancora la bottiglia, mentre il bastone era stato abbandonato contro un mobile in rovere pieno di vasi e vecchi ricordi in bianco e nero, chiusi in cornici di legno impolverate. In alcune di queste v’era raffigurata una ragazza molto bella. Erano di almeno una ventina d’anni prima.
Il vecchio per un attimo sembrò non fare più caso al suo ospite. Poi, in un moto quasi istintivo, riempì i bicchieri e ne allungò uno verso Giovanni, che lo afferrò. Qualche goccia di rum cadde su un vecchio tappeto bucherellato. Giovanni portò il bicchiere alle labbra e lo svuotò. Non aveva ancora perso il ritmo della catena di montaggio.
“Perché ti ha lasciato?”, chiese un attimo dopo cercando di sembrare il più interessato possibile. In realtà non gli importava, ma finché il vecchio offriva da bere…
“Non lo so. Forse la paura, forse la noia.”, rispose lui con lo sguardo perso nel vetro del bicchiere, “ricordo solo che era estate.”. Rimase in silenzio. La casa era immersa nella penombra, l’unica illuminazione veniva da fuori ed erano le lampade al neon che brillavano in cortile. Erano sei. Due erano fulminate.
“Ero andato a pesca, come ogni mattina. Uscivo alle quattro e mezza e tornavo alle otto della sera.”, riprese “Era una vita davvero dura ma mi dava da mangiare. Vendevo il pesce giù al mercato e un po’ ne tenevo per me.”. Bevve il rum tutto d’un fiato, i suoi occhi lacrimarono, poi si riempì di nuovo il bicchiere, passò la bottiglia a Giovanni e lui lo imitò. Ancora una volta tutto d’un fiato. Giù.
“Quando tornavo la trovavo sempre alla finestra che mi aspettava. Sembrava quasi non si fosse mai mossa di lì. Era un rito. La cosa mi rendeva felice. Quella sera, però, quando fui a due passi dal portone non la vidi. All’inizio pensai fossero i miei occhi. Avevo già iniziato a non vederci più tanto bene da questo qui,” disse toccandosi l’occhio destro, “ora sono mezzo cieco, ma non importa. Comunque il terrore si impadronì del mio cuore, quella volta. Le mani che tenevano il pesce fresco per la cena cominciarono a tremarmi. Mi misi a correre: forse si era sentita male, forse aveva bisogno di aiuto. La vedevo già lì, per terra, ansimante e spaventata. Abitavamo al quarto piano. Feci le scale due alla volta per arrivare prima. Un paio di volte caddi. Bussai alla porta ma nessuno rispose, così presi le chiavi e aprii. Casa nostra era vuota. Solo buio e silenzio. Accesi le luci ma non vidi altro. Mi sedetti e cominciai a piangere…”.
“Ma nemmeno un biglietto? Un addio, qualcosa…”.
“Non sapeva scrivere. Nemmeno io so scrivere. All’epoca era diverso, non come ora.”.
Dagli occhi del vecchio cominciarono ad uscire alcune lacrime. Immerse la faccia tra le mani nodose e poi, con le guance bagnate, si riempì un nuovo bicchiere che questa volta sorseggiò a lungo.
Giovanni, non sapendo cosa fare o cosa dire, si era messo a guardare fuori dalla finestra. Quel cortile era come tutto il resto del mondo, pensò: non curato, sporco, lasciato a se stesso. Alla gente piace occuparsi di quello su cui non ha nessun potere.
Il vecchio intanto aveva disteso i piedi e aveva cominciato a cantare. Giovanni non capiva le parole ma doveva essere una vecchia canzone in dialetto, un canto di pescatori. Si protese per cercare di sentire meglio ma fu a quel punto che il vecchio si alzò di scatto e cominciò ad urlare:
“Sta arrivando, è vivo, lo voglio, mi vuole. Cristo lo sa, Cristo lo sa.”.
Batteva i piedi e la casa tremava ad ogni singolo colpo. Sembrava che tutto dovesse venire giù da un momento all’altro.
“Sarà il giorno, sarà il giorno. E lo vedremo nascere. Lui mi vuole. Dio aiutami perché sono un peccatore.”.
Continuò per un paio di minuti, poi ricadde sulla poltrona, tra i fiori sbiaditi. Non disse altro, non si mosse neppure. Con gran forza di volontà Giovanni si alzò e gli si fece accanto. Avvicinò un orecchio a quella bocca sporca di alcol e ascoltò in silenzio, ma non sentì nulla.
“Casa nostra era vuota. Solo buio e silenzio.”.
Giovanni diede un piccolo calcio al piede del vecchio ma questi non si mosse, poi prese la bottiglia di rum per il collo e la fece scivolare via dalla mano nodosa che la teneva stretta. Non ci fu alcuna resistenza. A piccoli passi traballanti arrivò alla porta, l’aprì e scivolò fuori sul pianerottolo. Prese le scale e fece gli scalini due alla volta, con il rischio di ruzzolare giù e rompersi l’osso del collo. In pochi secondi si trovò fuori, con l’aria fresca della notte che gli schiaffeggiò le guance.


Con il cuore in gola si guardò intorno, ma non vide nulla. Le strade erano deserte proprio come le ricordava. Cominciò a camminare, portandosi di tanto in tanto la bottiglia alle labbra. Sbronzo. Ma domani è un altro giorno, pensò, e non doveva passarlo a lavorare. Giovanni odiava il suo lavoro. Chissà Lucia che fine aveva fatto: forse era rimasta nel bar fino al momento della chiusura. Delle altre non gli fregava niente, ma lei era diversa. Lei beveva e non si ubriacava mai.
Così cominciò a camminare e camminò per chissà quanto, senza riuscire a trovare la strada giusta che lo avrebbe riportato a casa. Si sentì Doroty circondata dalle streghe. Quando infine si accorse che aveva girato intorno allo stesso isolato per gli ultimi dieci minuti, si lasciò cadere sul bordo del marciapiedi. Il rum era finito. Prese la bottiglia e la scaraventò lontano. Pensò al vecchio, ripensò a Claudia. Pensò a come una donna poteva ridurre un uomo. Guardò l'immondizia lì vicino e sorrise. Poi si distese ("solo un attimo", si disse) e chiuse gli occhi. Erano anni che non si sentiva così bene e così male allo stesso tempo.      

Quando si svegliò il sole era alto nel cielo. Mucchi di persone camminavano attorno a lui: alcuni lo scansavano, altre lo urtavano con le punte delle scarpe. Nessuno ci faceva caso. Le macchine avevano ripreso a riempire la città di smog e rumore e profumo di mare proveniva da ovest.
Giovanni si tirò su a sedere. Era sporco e puzzava: di piscio e alcol mentre la testa martellava violentemente il proprio disappunto. Provò ad alzarsi e ci riuscì solo dopo un paio di tentativi. Aveva la giacca lacera e il mento incrostato di sangue, coi capelli scarmigliati e sporchi di polvere. I passanti lo guardavano come fosse un essere di un altro pianeta. “Siete tutti come me”, era sul punto di urlare lui, preso da una rabbia improvvisa. Ma non lo fece. Invece concentro la sua attenzione sui palazzi. Si guardò intorno, cercando di capire dove diavolo fosse. Il mercato era a pochi isolati da lì, casa sua ad un paio d’ore. Il bar invece doveva essere solo a una mezz’ora di cammino.
Giovanni si fece coraggio. “Sale, tequila, limone. Sale, tequila, limone.”, iniziò a ripetere. Forse Lucia era già lì che lo aspettava.


Commenti

  1. Le parole le avevi gia' messe tu.
    Non volevo sbrodolarti addosso rimandi letterari colti, o giudizi stilistici lusinghieri a vanvera, o analisi testuali entusiastiche. 8P

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    1. E io che pensavo fosse per non offendere :D

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    2. Ah no.Se c'e' da offendere sono cintura nera IX dan Livello Super Sayan 4, non temere.

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