Repulsion (di Roman Polanski, 1965)


Quando parliamo di Roman Polanski ci inoltriamo in un territorio ostile. Nel senso che il regista polacco, oltre a non essere di facilissima lettura, si è dedicato a così tanti generi da essere diventato complesso per definizione. Ovviamente, quando parliamo di Polanski, parliamo di perturbante e se parliamo di perturbante sono tre i film di questo regista che vengono subito in mente: Rosemary's Baby, L'Inquilino del Terzo Piano e Repulsion. Questa di oggi è la recensione di Repulsion (1965).

La lenta discesa di Carol Ledoux, manicure belga a Londra, verso la dissociazione psichica. Lasciata sola in casa dalla sorella, è vittima di incubi, allucinazioni sessuofobiche, deliri. (tratto da filmscoop.it)

Perturbante, dicevo. Una parola di origine tedesca (usata per la prima volta da Freud in ambito psicoanalitico) che sta ad indicare quella sottile sensazione che proviamo di fronte a qualcosa di familiare ma che allo stesso tempo ci diventa estranea e, per questo, ci turba, provocando in noi angoscia e paura. Insomma, quando vediamo qualcosa di familiare da un punto di vista differente, non riconoscendolo più come tale. I film horror, da sempre, giocano con il perturbante anche se, spesso, ad un livello puramente estetico o per lo più superficiale. Ci sono però film che cercano di andare più in profondità, e i tre film horror girati da Polanski fanno proprio questo. Repulsion soprattutto, si basa su un'idea di orrore quasi esclusivamente psicologica. Solo che il perturbante agisce su di noi attraverso gli occhi della protagonista Carol (interpretata da una Catherine Deneuve giovanissima, bellissima e bravissima), che precipita sempre più nel vortice delle proprie psicosi.



Un precipitare lento ma inesorabile che noi (spettatori) non comprendiamo ma che viviamo a livello empatico: il film inizia sugli occhi della donna e continua attraverso di essi, arrivando a far coincidere la realtà con la psicosi e, attraverso alla psicosi, con la follia. Tutto nasce da una situazione di estraneità: Carol è un'emigrata (proprio come il regista) che non può far altro che osservare un mondo in cui è immersa ma che gli è estraneo. L'unico legame con la propria identità (sociale ma anche psicologica) è rappresentato dalla sorella. Solo che la sorella è impegnata in una relazione con un uomo sposato che, automaticamente, la rende evanescente nei confronti della donna, ovviamente instabile. Questa sarà la goccia che farà traboccare il vaso (un vaso bello pieno) anche se il vero motore del dramma è la repulsione molto più profonda che il personaggio prova nei confronti del sesso opposto: una minaccia che, se nella vita reale arriva ad avere un significato ben preciso, nella mente malata di Carol diventa evanescente.

Ma si sa, in psicoanalisi il perturbante ha un ovvia origine di natura sessuale che sembra perseguitare Polanski e che in Repulsion fa da padrona. Il film è pieno di simboli sessuali: dalle crepe nel muro (che indicano non solo l'infrangersi della realtà oggettiva ma anche il cadere delle difese inibitorie), alla Torre di Pisa (simbolo fallico), al sangue (rappresentazione del mestruo). Ma ogni particolare, nel film, è fisso e ridondante: ritorna sempre, ripetitivo come il rullo di un tamburo. E Polanski rappresenta il tutto senza cadere nella stessa morbosità, con sguardo oggettivo e asettico, proprio come farebbe uno psicoterapeuta nel bel mezzo di una terapia. Stesso scopo ha la fotografia di Gilbert Taylor, chiusa in un bianco/nero che non lascia scampo. E quando la violenza esplode nel finale e il caos dilaga, allora non non c'è più riparo dalla tempesta, non c'è più un posto sicuro in cui andarsi a nascondere. Nel finale la verità giunge inaspettata, senza rumore, e tutto si rivela per quello che è: il dolore e la follia nel passato di una donna /bambina che infrange l'apparenza.


Commenti

  1. Il mio Polanski preferito. Capolavoro assoluto. Quanto è meravigliosamente bella e maledettamente brava la Deneuve?

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