Non Lasciarmi (di Mark Romanek, 2010)


Non lasciarmi. L’avete mai detto? Avete mai chiesto a qualcuno una cosa del genere? A volte suona quasi come una supplica, altre come una richiesta retorica. Non lasciarmi. Eppure non sempre una separazione dipende da una delle due parti coinvolte. Spesso è la vita a decidere. O il destino, magari.

Come per i protagonisti di Non lasciarmi (Never let me go), film del 2010 diretto da a Mark Romanek: Kathy, Tommy e Ruth, tre ragazzi coinvolti in un triangolo d’amore e amicizia, legati tra loro da un destino comune che sembra ineluttabile e che finirà per separarli, al di là delle scelte di ognuno.

"Mi chiamo Kathy H. Ho trentun anni, a da più di undici sono un'assistente. Sembra un periodo piuttosto lungo, lo so, ma a dire il vero loro vogliono che continui per altri otto mesi, fino alla fine di dicembre. A quel punto saranno trascorsi quasi esattamente dodici anni." (dal romanzo)

Il film, tratto dall’omonimo romanzo in lingua inglese del giapponese Kazuo Ishiguro, percorre un periodo di tempo di circa vent’anni nel tentativo di raccontare la storia di questi tre ragazzi, dall’infanzia nel collegio di Hailsham all’età adulta, che coincide con la probabile fine del loro ciclo vitale. Infatti Kathy (voce narrante del film) e i suoi amici non sono individui come tutti gli altri, ma celano nel loro dna una terribile verità: sono cloni creati, come molti altri, per divenir fonte di organi sani da trapiantare all’occorrenza in chi ne avesse bisogno. Un vero e proprio esercito di donatori nato in provetta.


Il film, a dire il vero, non spiega molto: lo spettatore non viene mai informato dei dettagli, scopre l’essenziale inizialmente lasciato solo intuire, poi sbattuto in faccia con dolorosa rassegnazione.
Tutto il resto, la cornice, rimane vaporoso e indefinito, quasi un accessorio. Non viene  mai definito nemmeno il contesto sociale, né tantomeno quello politico o tecnologico. Sembra quasi che il mondo, in un sussurro, arrivi vaporoso alle orecchie di chi guarda.



Kathy (Carey Mulligan, guarda caso protagonista femminile in Drive) ama Tommy (Andrew Garfield) ma è amica di Ruth (Keira Knightley), la sua ragazza. Tutti e tre si conoscono sin da bambini, hanno frequentato insieme il collegio e sono stati trasferiti nella stessa comunità dove, immersi nel limbo delle campagne inglesi, attendono di divenire carne da macello. Il loro menage a trois non è certo idilliaco: le due ragazze sembrano legate da un rapporto d’odio/amore e Tommy sembra essere proprio l’ago della bilancia. La consapevolezza poi di essere destinati ad una fine prematura e sofferta non aiuta: ad una incomprensibile accettazione si contrappone infatti il desiderio di allontanare il più possibile quel destino beffardo, che li ha condannati ancor prima della loro nascita.

Bambolotti di carne. Destinati a rinunciare alle proprie vite in favore delle vite altrui.

Quasi tutto il film consiste in un lungo flashback. Il regista non racconta una storia ma i suoi personaggi, cardine della pellicola: li segue e li sviscera, mostrandoceli nudi e soli, condizionati sin dall’infanzia e quindi impossibilitati ad opporsi a qualcosa di ingiusto eppure estremamente razionale.
L’unica scelta che viene loro consentita è quella di divenire assistenti, ovvero di seguire altri donatori dal momento della loro prima operazione alla morte. Scopriamo (ma questo lo sapevamo sin dall’inizio, prima che il flashback cominciasse) che Kathy, anima sensibile e candida, ha deciso di diventarlo. Così facendo crede di poter allontanare non solo il fantasma del proprio futuro ma anche quello del suo amore impossibile, perduto, destinato ad un’altra, ad una Ruth odiosa e di rara perfidia che alla fine si rivelerà solo una ragazza infantile e spaventata dall’idea di rimanere sola. Tale scelta la porterà lontano. Il trio si dividerà.


Si rincontrerà molti anni dopo. La relazione tra Ruth e Tommy è finita da tempo e finalmente Kathy ha la possibilità di coronare il proprio sogno d’amore. Sullo sfondo, la possibilità di rinviare l’inevitabile fine. Il resto non ve lo sto a raccontare, dovete vederlo, se non lo avete già fatto.

Non lasciarmi è un morso allo stomaco. E’ il cuore che palpita, il corpo che piange dolorante. E’ una riflessione certo non originale ma rappresentata con pacata desolazione. Un indagare sull’anima dei suoi protagonisti che però mette alla prova anche quella dello spettatore. 
La fotografia, livida come il cielo britannico, rende perfettamente la sensazione di oppressione che si respira per tutta la durata del film, soffocante e senza via d’uscita proprio come la contrapposizione tra interni e esterni, i primi grigi e scarni ma rassicuranti, i secondi immensi ma inaccessibili e insondabili.

Mark Romanek, con il suo stile asciutto, rimane sullo sfondo lasciando che i suoi personaggi prendano vita e forma, percorrendo una strada già segnata ma non per questo meno sorprendente.
Non si distacca dal romanzo, lasciando alla voce di Kathy monologhi memorabili tra cui quello finale. Non sembra nemmeno voler dare un insegnamento morale, nè trovare una soluzione al dilemma etico che il romanzo pone: mette semplicemente in evidenza il meccanismo di un mondo distopico caratterizzato da luci ed ombre. Ad aiutarlo, le prove di fantastici attori (persino la Knightley è in parte nel suo essere odiosa).

A fine visione rimane una sensazione di desolante impotenza, lo strazio di un’umanità negata, di sentimenti spezzati che però non svaniscono nel nulla. E forse il cuore si incrina un pochino.
E’ assurdo come spesso il concetto di dolore coincida con quello bellezza. O di arte.


Commenti

  1. Tu ci credi che leggendo la tua recensione mi son venuti i lucciconi?

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  2. Ti ho fatto tornare in mente il dolore del film?

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  3. tantissimo dolore...e poi comunque sei stato bravissimo ad analizzare il film, davvero.

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  4. Ma grazie... soprattutto perchè non sono riuscito a dire proprio tutto quello che volevo dire. Ma sto film mi ha preso più lo stomaco che il cervello e se sensazioni si sono affollate violentemente.
    Grazie davvero.

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  5. Bene così, Francesco, perché annòi ci piacciono i film che strappano sorrisi e infondono serenità.

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  6. Certo, i film di cui preferisco parlare... di quelli che ti risollevano le giornate.

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  7. Straziante e bellissimo. Ripensando alla colonna sonora ho pianto per giorni, ti entra nel cuore come la voce narrante della protagonista.
    Ho lì il libro da mesi, non ho nemmeno il coraggio di aprirlo per paura di sentirmi di nuovo così triste.

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  8. Probabilmente è così bello proprio perchè straziante. Non so, molto spesso dolore e bellezza sono collegati. Io il libro non l'ho letto (solo qualche passaggio in libreria) e non so se farlo o meno...

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