Millennium: Uomini che Odiano le Donne (di D. Fincher, 2011)


Innamorarsi del personaggio di un film è rischioso. Non tanto per l'amore impossibile che si viene a creare, quanto perchè il rischio di subordinare tutto il film ad un unico personaggio, col risultato di perdere il bandolo della matassa critica, finendo per parlare del nulla.

Quando ho "conosciuto" Lisbeth, al secolo Rooney Mara, sono capitolato ai suoi piedi. In effetti l'anti-eroina di Millennium: Uomini che Odiano le Donne, ultimo film di David Fincher, riesce a far focalizzare tutta l'attenzione su di se, appropriandosene e poi monopolizzandola, fin dalla primissima scena in cui compare. Il rischio è di far dimeticare allo spettatore il motivo per cui si trova d'avanti allo schermo: guardare quel film tanto criticato, tratto dal primo capitolo della trilogia Millennium di Larsson e remake del film svedese uscito solo tre anni or sono.

Piccola parentesi, noiosa ma necessaria: non ho visto il film originale di Oplev, non ho letto il romanzo da cui è tratto, non sono quindi in grado di comparare il film di Fincher a nessuno dei due, quindi focalizzerò la mia attenzione sul film in se, un'opera complessa e sfaccettata, dalla trama ingarbugliata e dalle molteplici sottotrame.
La storia principale riguarda Mikael Blomkvist, un giornalista della rivista Millennium alle prese con l'accusa di diffamazione nei confronti di un imprenditore locale. L'uomo, ritenuto un abile investigatore, viene assoldato da Henrik, patriarca della potente famiglia Vanger, per risolvere il caso decennale della scomparsa della nipote Harriet, svanita all'età di sedici anni. Ad affiancarlo nelle indagini la sociopatica hacker Lisbeth.


Girato tra Svezia e Montreal, l'ultima fatica di Fincher ha un sapore tutto nord europeo, da servire a temperatura ambiente e gustare un sorso alla volta. Due ore e mezza di film che va liscio come l'olio (o il petrolio), misurato ma con scoppi di violenza tali da far sussultare sulla potrona. Un narrazione che non lascia nulla al caso o all'immaginazione, che si sofferma su un gatto fatto a pezzi e poi riparte nell'indagine dentro/fuori una storia difficile da rendere sullo schermo. Fincher è cresciuto, chi lo segue da sempre lo sa bene ma è in questa opera che diventa chiara la sua ricerca visiva con una dimensione ormai ben definita, a metà strada tra Seven e The Social Network passando per Zodiac. Parlano chiaro in tal senso i titoli di testa, un videoclip che accompagna le note di Immigrant Song dei Led Zeppelin riarrangiata dal genio Trent Reznor con la voce di Karen O, quasi a voler ricordare da dove inizia il percorso di questo regista ma attenta con un certo appeal a sintetizzare le tematiche di una pellicola a suo modo noir, classicheggiante e minimale.


Il quadro proposto da Millennium: Uomini che Odiano le Donne è quello di una società violenta, dove la forza non viene (di)mostrata con i muscoli ma attraverso le proprie disponibilità finanziarie: il conto in banca. Un mondo che ha metabolizzato le regole della finanza e che attraverso queste si esplicita nel principio di dare e avere. Chi non ha niente soccombe, chi ha qualcosa lo utilizza come merce di scambio per ottenere qualcosa di più, secondo il principio homini hominis lupus di hobbessiana memoria. 
In una realtà come questa, il personaggio di Mikael commette l'errore di azzannare la gamba sbagliata. Si ritrova così dalle stelle alle stalle, vittima dello stesso meccanismo in cui pareva essersi completamente inserito. Diventa una scheggia impazzita, l'unica in grado di scalfire l'ex super potenza locale (la famiglia Vanger) protetta dal coservatorismo e dall'omertà provinciale. Scheggia impazzita, sì, ma all'interno di quel comparto di regole da cui non riesce a districarsi neanche per sbaglio, tanto sono radicate in lui, tanto l'apparenza conta ormai più del contenuto. Ma giocare secondo le regole non porta da nessuna parte ed è qui che subentra i personaggio di Lisbeth Salander.


Lisbeth è l'outsider, quella che delle regole se ne frega perchè non le appartengono o meglio, è lei a non appartenere a quel mondo che cerca di piegarla e forse ci riesce, senza però riuscire mai a spezzarla. Una sociopatica, che non è in grado "di gestire il quotidiano", come afferma in una scena del film. L'aspetto fisico la dice lunga su questo personaggio, cyber-punk solitaria sul cui corpo perfetto spiccano le cicatrici di una fanciullezza mai vissuta. Piercing e tatuaggi simbolo di dolore e rabbia, quella stessa rabbia che esplode travolgente e inaspettata sotto il viso di una bambina bisognosa d'affetto.
Lisbeth non ha niente a che vedere con il prototipo di donna tanto caro a quel modello di società anacronistica che ancora spadroneggia secondo principi ormai superati. Lei non scappa, lei non simula e per questo viene etichettata come diversa, spazzatura magari, ma mai pericolosa finche non mostra i denti. Il suo desiderio/bisogno di vendetta continuamente svilito nei confronti di un mondo maschilista che non solo non l'accetta ma pretende anche di controllarla o di servirsene per fare il lavoro sporco, la rende fredda e distaccata, interpretata da una Rooney che abbandona il proprio aspetto alla Audrey Hepburn e si cala completamente nel personaggio facendolo suo, arrivando persino a marchiare il proprio corpo quasi fosse una firma d'autore.       

Anche il lavoro di Daniel Craig è notevole: l'attore americano mette da parte il completo alla James Bond e diventa il celebrale Mikael Blomkvist, occhiali e cardigan, spaventato e curioso, intelligente ma costruito, un perfetto gentiluomo estraneo alla violenza. Lui, che assaggia il mondo di Lisbeth ma poi torna al suo, metabolizzato e impresso nel dna fino al disilluso finale, crudele e nero pece.


Ho parlato di quadro, un po' più su. In effetti Uomini che Odiano le Donne è un mondo parallelo al nostro, disegnato con mano ferma dallo sceneggiatore di Steven Zaillian e dallo stile inconfondibile del regista. Le pennellate grigio scuro della fotografia (di Jeff Cronenweth), immersa nelle campagne svedesi e nell'asfalto metropolitano, danno un tocco duro e freddo, quasi malinconico, ad un'opera senza speranza, sofferta in inquadrature montate con gusto letterario per la punteggiatura: a volte veloci e minimaliste, altre lunghe e squisitamente complesse. La mdp cala sui personaggi (tanti, forse troppi), li segue, li abbandona per poi ritrovarli tra nomi e luoghi che non ci appartengono. Il bello è che non annoia mai, nonostante l'indagine sia completamente al di fuori dei canoni action.

The Girl with the Dragon Tattoo è un film che è stato definito bello, brutto e così così. Io l'ho trovato splendido, una di quelle pellicole che vorresti non finissero mai. Forse perchè mi sono trovato subito in sintonia con la storia, forse perchè adoro questo tipo di narrazione disillusa e ricercata, forse per l'empatia con il personaggio femminile, uno di quelli che non vedi l'ora che sia in scena. Forse perchè di una donna così mi potrei innamorare all'istante. Sta di fatto che il groppo in gola che ho sentito una volta arrivato ai titoli di coda non è una cosa che sento spesso. Sarà anche un film su commissione, fatto per far cassa, prodotto per cavalcare l'onda. Ma io sono felice così.    





Questo è un mio video tributo per Rooney Mara, alias Lisbeth.

Commenti

  1. Io sono sobria, ma tu sei bravissimo.
    E non posso aggiungere nulla, perché la penso come te. E' un grandissimo film, e se tutti i film su commissione fossero come questo, andremmo al cinema molto più felici.

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  2. Visto e mi è piaciuto molto dal primo all'ultimo minuto: ha una trama, un senso, personaggi con personalità e una storia. Questo è degno di essere chiamato film!

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  3. Questo film mi ha fatto male, mi ha trascinato con se e mi ha risputato fuori nel finale. E' degno di essere chiamato film.

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  4. Concordo con Lucia.
    E con te, quando parli di Lisbeth.
    Inoltre, credo abbia fatto benissimo alla tua visione il fatto di non essere stato influenzato dal romanzo e dal precedente svedese.

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  5. Fincher non delude nemmeno stavolta. Il film è un chiaro esempio della sua cinematografia. Ci trascina con sè, nella crudeltà e nella violenza di cui tratta; non lascia nulla all'immaginaziine, nemmeno le scene più pesanti sono lasciate intravedere: tutto è mostrato. Un maschilismo dirompente, dove Lisbeth appare si, come la sociopatica, ma anche come unica Mosca bianca che pur essendo costretta a piegarsi a quella violenza, resta l'unica in grado di razionalizzarla all'inverosimile, riuscendo perfettamente nel suo intento di reazione a questa realtà.
    Ottimo film, pesante moralmente, ma resta dentro e non molla la presa per giorni. Fa riflettere.

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  6. @MrJamesFord: infatti ora guarderà il film svedese. Il romanzo invece non credo lo leggerò mai.

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  7. @Valentina: hai sintetizzato la mia recensione. Benvenuta.

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  8. Avevo riserve perchè il libro lo avevo iniziato e chiuso dopo due pagine per via dello stile piatto di scrittura. Però Fincher mi gusta, e così mi sono lanciato, nonostante le brutte recensioni. E devo dire che il film mi è piaciuto e ho trovato molto ben realizzata Lisbeth. Penso che parte del merito vada a soggetto e sceneggiatura, ma certo anche all'autore del film. Non ho trovato centrale il paradigma del maschilismo o dell'oppressione in generale, in questo film, ma ho invece molto apprezzato scelte come lo scomodo realismo a fianco della reattività con cui la ragazza affronta alcune delle situazioni che le si parano davanti.

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  9. In altre parole anche tu sei stato colpito dalla forza espressiva di un personaggio come Lisbeth.

    Io invece il tema dell'oppressione l'ho trovato il motore di ogni accadimento all'interno del film.

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