The Words (di Brian Klugman/Lee Sternthal, 2012)


Ci sono film che non importa se siano belli o brutti, girati bene o girati male, troppo lunghi, troppo corti, con troppa carne al fuoco o troppe poche cose da dire. Ci sono film che ti arrivano addosso come un macigno e ti schiacciano, qualunque tipo di film essi siano. E quando vieni schiacciato c'è poco da fare: confronto a quel dolore tutto il resto passa in secondo piano.
E' questa la sensazione che ho provato guardando The Words: quella di essere schiacciato. Non con violenza, ma come se mi trovassi all'interno di una pressa. Quindi non ci sarà niente di oggettivo in questa recensione, non aspettatevi un post affidabile. Sempre ammesso che sia mai riuscito ad essere affidabile.
Film del 2012, della coppia di registi Brian Klugman/Lee Sternthal, qui anche nelle vesti di sceneggiatori. Una pellicola che non è piaciuta a nessuno, girata in una Montréal tra Parigi e New York, con una struttura ad incastro che a molti ha ricordato quella di un thriller ma che, in realtà, col thriller non ha niente a che fare. 

Rory, aspirante scrittore, scopre presso un robivecchi di Parigi un misterioso manoscritto ingiallito: un'appassionante storia d'amore, ambientata dopo la Seconda Guerra Mondiale. L'uomo decide così di far passare come suo il romanzo. La celebrità e i soldi non tarderanno ad arrivare, ma Rory si troverà a pagare a caro prezzo il suo 'furto' (da filmscoop.it)


Una storia, in una storia, in un'altra storia. Un romanzo, nel romanzo, in un altro romanzo. Parole. Cosa sono le parole? Parole, solo questo. Eppure ognuno ha le proprie, come cicatrici nell'anima. E quando tu perdi le tue o rubi quelle di qualcun'altro, sai nel profondo di aver perso o rubato un pezzo di anima (e un pezzo di vita). La storia di un uomo che non può vivere come tutti gli altri uomini e per questo scrive. Ma tra lo scrivere ed essere uno scrittore c'è una differenza abissale. Per questo Rory soffre: non può essere come gli altri ma non riesce ad essere diverso. Imprigionato in un limbo che si chiama insoddisfazione. Per questo, quando trova le parole che lui non sarebbe mai capace di scrivere, le ruba. Inizialmente non con lo scopo di fingere che siano sue ma solo per poterle sentire scorrere dentro di se: per poter fingere di essere quello che non riesce ad essere. Ma restano comunque solo parole. Il problema vero nasce quando Rory scopre che dietro c'è altro e che il furto di un manoscritto può rivelarsi l'appropriazione di qualcosa di più intimo e profondo.

Allora in questo gioco di scatole cinesi c'è la vita. Ci sono le parole che la raccontano, ma poi cosa raccontano davvero? Se delle parole ci si può appropriare, si può fare la stessa cosa con quello che celano? Il film cerca di riflettere su questo, cerca di parlare di quello che si nasconde dietro un romanzo (ma potrebbe essere anche un film) e di cosa resta al lettore. Perché ogni opera d'arte è un gioco di scatole cinesi: tra il punto di vista del lettore/spettatore, quello dei personaggi e quello dell'autore. Forse il film non parla di questo, ma il bello sta proprio nell'appropriarci di qualcosa che non ci appartiene e farlo nostro. Alla fine si tratta di finzione in cui le verità emergono a seconda di chi la osserva. Si tratta di quel che ha valore nel momento stesso in cui diventa reale. Si tratta di persone che provano ad essere qualcun'altro, per sopravvivere, per non morire soffocati da una vita che scorre e non lascia scampo. Si tratta di scelte e delle conseguenze per ogni scelta che è stata fatta. Dei rimpianti e di ciò che finisce. 


The Words è una storia d'amore. L'amore per le parole, che supera persino quello per chi le ispira. L'amore per una donna che non basta se a mancare e qualcos'altro. L'amore per quello che si è perso ma che resta, quando lo imprimi su un foglio. C'è anche il dolore, ma quello è solo una conseguenza. Ci sono attori che sanno incatenarti al video con uno sguardo. C'è Jeremy Irons che solo con la sua presenza scenica umilia il mediocre Bradley Cooper (qui comunque bravo). C'è la sensualità di Zoe Saldana, il perturbante di Nora Arnezeder e una Olivia Wilde di plastica che da quasi fastidio agli occhi. C'è Dennis Quaid, che ormai è l'uomo più inquietante del mondo ed è protagonista della parte meno convincente del film. Ma, soprattutto, c'è la sensazione di capire ogni singola battuta, ogni singolo silenzio. Ogni singola cosa. E allora me ne frego se si tratta di un film mediocre o di un capolavoro. E me ne frego se non siete d'accordo con me. 

Nota: ogni singola parola di questa recensione è stata copiata da un file word trovato per caso in un vecchio pc abbandonato. Ringrazio pubblicamente l'autore, che invito a rimanere nell'anonimato se dovesse venire a conoscenza della cosa. 

Dedicata a F.


Commenti

  1. Ehhhh, le opere altrui che parlano all'intimo a tradimento....Che sconquasso!

    Sempre un piacere leggerti quando scrivi da dentro ;)

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  2. Bella rece, ma il film mi ispira poco... Meno male che Cooper è migliorato dopo la cura O' Russell!

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    1. A quanto pare è più probabile che non piaccia, ma io ho dei gusti strani, a volte estremamente viscerali.

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  3. gran bella recensione! molto sentita! il film non l'ho visto, ma mi hai messo voglia! :-D

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