Last Shift (di Anthony DiBlasi, 2014)


Porsi di fronte un film horror come Last Shift, al giorno d'oggi, è tanto facile quanto difficile. Uno ad esempio legge la trama, guarda la locandina e, forse, decide di passare, sia mai si tratti dell'ennesimo film facilone con jump scare come se piovessero, satanismo a gogo e situazioni riciclate. Lo ammetto, lo stavo per fare volentieri anche io, se non fosse che poi su blog che giudico "sicuri" ne hanno parlato benissimo e che il regista è Anthony DiBlasi, per capirci quello che ha esordito con Dread nel 2009, film tratto mooooolto liberamente da un racconto di Clive Barker e (senza fare paragoni assurdi con la controparte cartacea) dal risultato moooooolto interessante.

Quindi, dicevo, facile e difficile porsi di fronte Last Shift. Facile perché, superate le dovute reticenze, si è rivelato un film molto bello, molto ben fatto e, soprattutto, in grado di incutere quel tipo di ansia che ormai molto raramente riesco a provare, difficile per ciò che rappresenta, ovvero il classico film horror con jump scare e situazioni riciclate. Che poi dipende da come sono questi salti sulla sedia e da come vengono riciclate le situazione, motivo per cui Last Shift, a conti fatti, vince e convince.


Un'unica location, un'attrice protagonista regina della scena, tre o quattro attori secondari e una manciata di comparse. Tutto ha inizio in una stazione di polizia nel suo ultimo giorno di attività. Jessica Loren, giovane recluta che ha appena preso servizio, dovrà badare agli uffici nella sua prima notte di lavoro. Facile facile come compito, visto che le chiamate sono già state dirottate sulla nuova centrale, le celle sono vuote e tutto quel che Jessica deve fare è badare al deposito semi deserto e a eventuali visitatori. Un solo turno di otto ore prima che il sergente le dia il cambio.
Il problema è che in quella stazione, tanti anni prima, sono accadute cose molto brutte e forse l'agente Loren non è davvero così "sola".

Si parte con una situazione classica, una classica storia di edifici infestati e eroine sole e sperdute in un ambiente da incubo. Quel che conta però, in Last Shift, non è tanto il "cosa" quanto il "come" e il "perché": come una situazione del genere viene gestita e il perché determinate cose accadono. Il tutto senza spiegoni di sorta, senza trattare lo spettatore come un deficiente. Tutto, nel film di DiBiasi, avviene in modo naturale, tutto visto attraverso gli occhi della protagonista, tutto osservato con occhi distorti dal "credo" di un personaggio fintamente razionale, già piegato, già plagiato. Lei non lo sa, noi non lo sappiamo ma, mano a mano che i fatti si svelano e la coltre di dubbi si dissiperà, ne diveniamo consapevoli fino al cattivissimo finale.


Razionale è cercare un senso all'incomprensibile. Ma nel momento in cui diventa palese l'irrazionalità di ciò che accade, la mente razionale deve essere capace di aprirsi. La mente di Jessica affronta l'irrazionalità degli aventi a cui è costretta ad assistere con la mente chiusa, offuscata dal proprio "credo" che non è religioso ma sicuramente dogmatico. Il giuramento dell'accademia, ripetuto come un mantra o come una preghiera, la guida nei momenti più difficili costringendola a prendere di petto situazioni di fronte alle quali chiunque dotato di raziocinio sarebbe fuggito. Lo spirituale viene quindi traslato sul piano psicologico, il tema della possessione (o, meglio, della persuasione) demoniaca in una sorta di complesso di Elettra. Non a caso gli avversari contro cui Jessica deve confrontarsi non sono adoratori di Satana (l'avversario per eccellenza) ma di un male dicotomico, non generato, in un certo senso il male originario che, di base, non persuade l'uomo ma lo contraddistingue fin dalla nascita. 

Il contrasto alla base del film non è allora tra un integerrimo poliziotto e una ancor più folle famiglia Manson, ma tra la bellissima protagonista (Juliana Harkavy) e il male che si porta dentro, scatenato da forze mistiche. L'agente Loren si disvela di fronte ai nostri occhi e la bravura di DiBiasi sta nel darci indizi poco alla volta ma sin dalla primissima scena, di farcela apparire prima in un modo e poi in un altro mentre, in realtà, è sempre la stessa, sempre lei in tutte le sue sfumature, fatta a pezzi da un lento e inesorabile stupro mentale. E noi spettatori, coinvolti come siamo nel suo punto di vista, subiamo la sua sorte.


La subiamo perché il regista è bravissimo a gestire la scena, a gestire lo spazio angusto, i corridoi bianchi nel chiaroscuro di luci che saltano, il buio che proietta mostri, le sedie e i tavoli tramutati in ostacoli o trincee a seconda di una semplice inquadratura. DeBiasi è bravissimo nel trasformare la scenografia in una sorta di mostro o in un labirinto che nasconde mostri dietro ogni angolo. E' bravissimo nel gestire le apparizioni (dal make up fenomenale), nel generare ansia con mosse semplici come una canzoncina/filastrocca o una telefonata o la putrescenza di bagni alla Silent Hill o apparizioni in puro stile j horror. Il sonoro, i neon rumorosi che si ammutoliscono all'improvviso, gli sguardi e il confondersi di realtà e follia fino a che il finale non ci tira fuori dalla prospettiva che abbiamo subìto per tutto il film e, solo allora, diveniamo liberi e scopriamo che Last Shift ci ha giocati, spacciandosi per un horror sovrannaturale quando in realtà è stato il più psicologico degli orrori. 

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