“Plic, plic, plic”,
costante come la goccia che alla fine perfora la roccia, quel lento e
rumoroso, frastornante gocciolare perforava i suoi timpani e il suo
sistema nervoso, che non era mai stato dei più solidi.
“Plic, plic, plic” e
non si fermava, quasi fosse il tempo che passava, i secondi che si
scambiavano di posto, il procedere di una marcia infinita di infiniti
passi che si approssima sul baratro della pazzia, per nulla timoroso
di gettarglisi dentro.
“Plic, plic, plic”
estenuante, a tratti violento, quel gocciolare la violentava, la
umiliava, la derideva nella sua impossibilità ad alzarsi per farlo
smettere.
Non che fosse una
situazione completamente nuova, per lei. L'impossibilità di far
smettere qualcosa. L'impotenza. Era una sensazione (anzi, un
sentimento) che lei conosceva bene. Esercitare controllo solo per
capire di non averne. Non averne e soffocare nell'ansia di
desiderarne senza successo. Ritrovarsi spietatamente inerme neanche
fossero mulini a vento ma veri propri giganti invisibili chiamati
circostanza, casualità, dovere e pragmatismo.
Ecco, pragmatico. Per lei
quello era diventato quasi un'offesa. Cosa voleva dire, infondo?
Pragmatico: prag·mà·ti·co/
aggettivo
Caratterizzato, ispirato o promosso dal prevalere di atteggiamenti
o interessi pratici su quelli teoretici.
"una linea di azione p. e realistica"
In altre parole il
trionfo del materialismo. Era sempre stata così? C'era davvero
bisogno di tutto questo trionfo della materia sul pensiero? Anzi,
c'era davvero bisogno di piegare il pensiero alla materia? Non poteva
trattarsi piuttosto di un livello intellettuale di praticità?
Quello di dire, ad
esempio, tutto quello che si pensa senza paura di essere giudicati.
Ma quella possibilità era negata dall'impossibilità di porre il
proprio pensiero sullo stesso piano di quello altrui. Ciò non
avveniva quasi mai: il pensiero altrui non accettava pari, si sentiva
al vertice di una piramide di fervido egoismo. Non rimaneva
possibilità di discussione. Il punto di vista personale, divenendo
assolutistico e assolutisticamente centrico, si faceva monarca di un
regno caotico in cui tutti parlavano e tutti se ne fregavano delle
parole altri, in uno scambio collettivo tra gente che rimaneva sempre
sulla propria posizione. Era solo l'ombra del cambiamento,
l'illusione del progressismo, il funerale dell'automiglioramento.
Ma se non importava a
nessuno, che senso aveva farlo? Lo scopo era sempre stato quello di
stare meglio, in fondo. O almeno, così le pareva di ricordare. Ma se
per ogni scalino che con fatica era riuscita a superare c'era poi una
nuova rampa che la separava da tutti gli altri, a che pro compiere
quello sforzo immenso? Non conveniva prendere una scorciatoia e
fottere tutti saltando direttamente al primo posto?
“Plic, plic, plic”,
adesso quel rumore sembrava quasi volesse parlarle. Via via che lo
ascoltava, le era parso divenisse un progressivo blaterare, di quelli
fitti fitti, come se in ognuna di quelle gocce vi fosse rinchiusa una
folla.
Folla: fòl·la/
sostantivo femminile
Moltitudine anonima di persone: far f., accalcarsi; anche spreg.,
massa, volgo.
"non bisogna credere agli applausi della f."
Tante gocce, tante folle.
Folle: fòl·le/
aggettivo
1.
Spinto o promosso da una visione deformata o travisata della
realtà: un f. proposito; di persona, anche s.m. e f..
"è da f. comportarsi così"
Tutto tornava, tutto
aveva senso. Tutto. Finalmente. Aveva. Un. Fottutissimo. Senso. La
gente era pazza e dava forma a una realtà di cui aveva travisato il
senso. Perché così andava: era la gente a dare forma
all'insostenibile varietà del caos. A chiuderlo in dei cassetti. A
frenarlo con dei paletti. A metterci sopra delle etichette. Ma,
soprattutto, erano le persone a dare consistenza all'inconsistente, a
sacrificare la teoria in favore della pratica, l'intelletto del
muscolo, riuscendo persino nell'impossibile compito di dare
importanza all'inutile, senso al non sense. Perché a loro
non piace, loro odiano vivere nell'indeterminatezza, quella
che non ci metterebbe nulla a sacrificare le loro stupide idee, le
loro inutili convinzioni, i loro gonfi e tronfi ego che già tutto
hanno deciso, già tutto sanno senza ammettere di non sapere.
Ed ecco che le arrivò
finalmente la rivelazione che aspettava da anni: la sua ansia da
controllo derivava dal fatto che non c'era possibilità di
controllare nulla. Le cose andavano a finire per i fatti loro, il
resto era solo parvenza, solo il gonfiarsi del piccolo e debole
animale per cercare di apparire grande e forte. L'apparenza a cui
tutto, in un atroce e ultimo atto di follia, l'umanità aveva
sacrificato.
E “plic, plic, plic”,
forse avrebbe dovuto abbandonarcisi, impazzire anche lei (se già non
era successo), lasciarsi andare. Qualunque cosa avesse provato a fare
non sarebbe servita, infondo. “Plic”. In quel rumore il senso di
tutto. Provò a concentrarsi un attimo, per l'ultima volta, e si
chiese se sarebbe mancata a qualcuno. “Plic”. Forse alla sua
famiglia. “Plic”. Forse ad un paio di amici. “Plic”, forse
no. “Plic”, forse a nessuno. “Plic”, forse non se ne
sarebbero neanche accorti. Ma il concetto di mancanza le sfuggiva
proprio, in quel momento. Ad esempio, a lei Domenica sarebbe mancata?
Anche presupponendo di poter uscire da quella situazione, ne avrebbe
sentito la mancanza? E se al di fuori di quella stanza tutte le
persone che conosceva fossero morte, come si sarebbe sentita una
volta uscita di lì? Si poneva il vero problema uscendo dall'ombra in
cui l'aveva celato per tutti questi anni: c'era davvero qualcuno a
cui lei teneva. A cui voleva bene? E qualcuno teneva veramente a lei?
A volte dava per scontato di sì, altre era sicura di no. Ci avrebbe
scommesso. Perché ci voleva così tanta pazienza con la gente.
Bisognava andarci piano. Lei li trattava come animali selvatici.
Sapeva che un movimento brusco li avrebbe fatti fuggire, che loro
percepivano il suo disprezzo e per questo la disprezzavano a loro
volta. Sapevano che voleva stare loro lontana, quindi la tenevano a
distanza. Non potevano nemmeno immaginare quanta violenza ci fosse
nella sua quotidianità, quale sforzo faceva provandoci, indossando
stupide maschere di carta riciclata che la prima pioggia estiva
avrebbe spazzato via. L'impegno per andare loro incontro, trattenendo
i conati, soffocando il suo egocentrismo per veder proliferare,
gonfiarsi, ingigantirsi quello altrui. E il dolore che la prendeva
quando non ci riusciva. Il senso di solitudine che la soffocava
quando rimaneva sola. Perché è bugia che l'asocialità si nutre di
se stessa. L'asociale è un bulimico affetto da disordini sociali.
“Plic, plic, plic” e
quel gocciolare sembrava volesse darle ragione. “Siamo diventati
amici, vero?” sussurrò. Che grande mattacchiona che era. Il suo
senso dell'umorismo non l'aveva mai capito nessuno. Il pavimento
iniziava ad essere freddo. Aveva mal di testa. “Plic, plic, plic”,
i polsi le dolevano, le caviglie pure. Aveva sete, tanta sete.
Pensare troppo poteva seccare la gola? Davvero? Ahahahah, pensare
troppo era sempre stato il suo grande difetto. Anzi no, il suo
tallone d'Achille. Un punto debole che non poteva mascherare. Era
stata immersa nell'adriatico tenuta per le meningi e in quella
posizione aveva dato un primo sguardo alla relatività del tutto,
trovandola perfetta. Mutevole e sublime. Spaventosa. Avrebbe voluto
fuggire ma non poteva. Non ne era in grado, come adesso non era in
grado di alzarsi e porre fine a quel plic plic plic. Domenica, di
fronte a lei, la guardava con occhi sbarrati. Non aveva mai notato
avesse ciglia così lunghe e sottili, sopracciglia così curate. Un
viso brutto, oggettivamente non bello. Una personalità che, al
contrario, traboccava dai lineamenti asimmetrici. I capelli ora erano
sporchi, più che grigio cenere sembravano bordeaux. Nel mezzo della
testa, sulla sommità, c'era una ferita profonda e larga, quasi
riusciva a scorgere la materia grigia che si era riversata sul
pavimento, accanto a quella pozza di sangue che si allargava sempre
più ad ogni plic.
Presto l'intruso sarebbe
tornato, lo sapeva. Aveva fatto un bel casino, lì attorno. Alcune
cose le aveva arraffate, ficcate nel disordine della sua sacca. Altre
non le aveva neanche degnate di uno sguardo. Ma quando le aveva
picchiate, quando aveva torturato la sua amica, quello si che gli
aveva dato soddisfazione.
Sentì borbottare
nell'altra stanza, la sua, una delle due al capo del corridoio. Tra
poco quell'estenuante attesa, quelle voci racchiuse nelle gocce di
sangue, si sarebbero ammutolite. Legata come un vitello, in quella
clessidra umana trovava i secondi che mancavano all'ineluttabile
fine. Era quasi consolante. Più e più volte si era chiesta che
senso avesse andare avanti così, solo per scoprire che tutto si
ripeteva inutilmente. La vita, in fondo, era fottutissima arte
visiva, il corto animato che proseguiva mischiando la fine con
l'inizio, in modo perpetuo. L'unico modo per fermare tutto era dare
un taglio alla pellicola, ma nemmeno così era sicura che lo
spettacolo sarebbe terminato.
“Plic, plic, plic...”
poi “pac, pac, pac, pac”. Suono di passi che si facevano più
vicini. Sorridi bella. Sorridi. Non vale più la pena di
preoccuparsi, a questo punto. Pronta all'inchino finale di fronte al
pubblico o preparati a ricominciare tutto da capo, come nulla fosse.
“Plic, plic, plic”!
Complimenti, mi piace davvero l'atmosfera che sei riuscito a creare! Bel racconto!
RispondiEliminaTi ringrazio :)
EliminaPer i miei gusti, poi non saprei, ti direi di non eccedere negli elenchi pindarici: "e non si fermava, quasi fosse il tempo che passava, i secondi che si scambiavano di posto, il procedere di una marcia infinita di infiniti passi che si approssima sul baratro della pazzia, per nulla timoroso di gettarglisi dentro." troppi, anche se creativi e a volte brillanti, appesantiscono la lettura.
RispondiEliminaPerò bel racconto e bella lucidità d'analisi umana!
Mi farò un giro a leggere i precedenti! )
Sinceramente volevo appesantire i pensieri, creare quel senso di "troppo", di affollamento.
EliminaGrazie per il commento e la critica costruttiva :)
E allora funziona, leggendo i racconti precedenti infatti ho visto che non è una tua caratteristica/problema.
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