Ghost Stories (di Jeremy Dyson e Andy Nyman, 2018)


Sono un fan degli horror antologici ed è da una vita che lo vado ripetendo. Eppure non mi sono approcciato a Ghost Stories come ho fatto con un XX, per citarne uno recente, o un Creepshow a caso. Questo perché da più fonti sul web mi era parso di capire che Ghost Stories non fosse affatto quel genere di film, nonostante ciò che il titolo farebbe supporre.
Al timone ci sono gli inglesi Jeremy Dyson e Andy Nyman: il primo, membro del quartetto comico League of Gentlemen, è più famoso come sceneggiatore televisivo mentre il secondo, illusionista/showman, è regista di fama più consolidata (Severance, Funeral Party, Cattivissimo Me 3 e Dead Set). Nel 2010 i due idearono e diressero insieme la produzione teatrale a tema sovrannaturale Ghost Stories, da cui il loro primo film in tandem è stato tratto.

Il Prof. Phillip Goodman ha dedicato la propria vita al trionfo della logica e della scienza sulle credenze popolari che trovano nel sovrannaturale la propria ragion d'essere. Il suo programma televisivo si dedica proprio a questo: scoprire truffe e raggiri attuate da sedicenti maghi/imbroglioni per permettere alla verità di trionfare. Un giorno viene contattato dal misterioso psicologo Charles Cameron, da sempre sua ispirazione. Da questi riceve i fascicoli di tre casi paranormali rimasti irrisolti e a cui Goodman dovrà dare una spiegazione.


Come dicevo inizialmente, parlare di "antologico" in questo caso è secondo me fuorviante. Se infatti è vero che Ghost Stories è caratterizzato da tre racconti episodici, è altresì palese che essi rappresentano l'ossatura di un film che non si sviluppa come una semplice "cornice". Quello messo in piedi da Dyson e Nyman è infatti un vero e proprio organismo disezionato, scomposto, che trova nel finale la propria somma, una ragion d'essere. Parlare di Ghost Stories quindi è abbastanza complesso senza cadere nello spoiler.

Partiamo da un commento personale: il film in questione mi è piaciuto, senza esaltazioni di sorta. Va però analizzato nella sua complessità, poiché in progressione non tutto sembrerebbe tornare, nonostante a un occhio attento il quadro generale non apparirà così sconclusionato. Capita di inciampare durante la visione, ma il bello è che a farlo è lo spettatore, non il film. Ci si ritrova quindi a guardare tre storielle inserite in una "cornice": la prima è il classico racconto horror caratterizzato da una serie di jump scare che susseguendosi freneticamente infrangono continuamente l'atmosfera in un sommarsi di situazioni abbastanza classiche. La seconda si sviluppa su due livelli, il primo assolutamente psicologico e riuscitissimo grazie a un grandioso Alex Lawther e a tempi scenici che fanno risaltare l'ambientazione claustrofobica, il secondo di stampo raiminiano (con annessa citazione) dal gusto a tratti cartoonesco. La terza è interamente basata sull'interpretazione sopra le righe di Martin Freeman e da un gusto più europeo, abbastanza innocuo ma dal finale spiazzante che permetterà alla cornice stessa di svilupparsi trasformando il film in qualcos'altro. E' infatti a quel punto che la parte "antologica" lascia il posto al gioco onirico, non brillando certo per originalità narrativa ma rivelandosi una riflessione metacinematografica sul cinema stesso.


DA QUI, SPOILER:

Ghost Stories non è il primo film a giocare, analizzandoli, con i meccanismi dell'horror. Per molti il cinema è ancora un sogno e nei sogni le regole non sono mai le stesse. Se pensassimo all'occhio della MDP come ad uno specchio (cosa che in un certo senso è), potremmo pensare ai film come al riflesso distorto della realtà. Sogno, appunto. Il sognatore in questo caso è Phillip Goodman e l'intero film si sviluppa come riflesso del piccolo spicchio di mondo che il suo subconscio estrapola dal letto d'ospedale in cui è relegato. 

Prendere un meccanismo, smontarlo, rimontarlo facendo attenzione a metterne in evidenza le caratteristiche solitamente invisibili all'occhio. Secondo me è questo che i due registi hanno tentato di fare con Ghost Stories. La magia del cinema non è altro che un gioco di prestigio: è finzione, è solo un artificio. Incredibile come su livelli differenti, quanto fatto dagli autori sia identico a ciò che il protagonista tenta di fare per tutto il film. Basta questo ad elevarlo, a renderlo differente dalle solite storie di fantasmi. Persino il trucco per eccellenza (jump scare) acquisisce forma nuova, l'accidente che sapientemente usato diviene tecnica. Potremmo paragonare allora il cinema horror ad un attacco d'ansia: arrivato all'apice non può far altro che calare. L'apice è il salto sulla sedia, che spezza la tensione in maniera più naturale di quanto si pensi, per evitare l'insostenibile. Se nel cinema contemporaneo viene utilizzato a sproposito, in Ghost Stories diviene il semplice spavento che l'accidentale scontro di un passerotto contro un vetro provoca nell'animo umano concentrato sul racconto.

Essendo un gioco, nel finale del film tutto torna. Ogni incongruenza si rivela per quello che è: il tassello di un racconto al contrario. Il meccanismo ribaltato trasforma la fine in un inizio e tutto si sviluppa come in un moonwalk fino a divenire cerchio perfetto. Ghost Stories è il tornio (meccanismo, appunto) su cui si sviluppa il film stesso, il sogno di un uomo in coma che si ripete, il gioco che si scopre e svela le proprie regole. Tutto quel che vediamo per tutta la durata del film non è altro che il subconscio di un uomo che elabora la propria esistenza tra sensi di colpa e desideri inappagati, il rifiuto di se stesso e la speranza di poter mettere le cose a posto. Senza riuscirci. 


CONCLUDENDO:

In Ghost Stories si svela la banalità del cinema horror e quel che a prima vista potrebbe sembrare l'ennesimo filmetto furbetto tutto jump scares e incongruenze condite dal solito esistenzialismo da quattro soldi e da un meccanismo prevedibile, si rivela una interessante esperienza metacinematografica. Un prodotto godibile che credo possa accontentare più di un palato senza dover necessariamente essere l'horror dell'anno o un nuovo capolavoro di genere. Per favore però: non chiamatelo "antologico".

Commenti

  1. È in lista recuperi da un po'. L'ho preso spinto dal facciozzo di Martin Freeman... Ho in programma la visione per domenica! :)

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    1. Dai, quindi lo guardi (o lo hai guardato) oggi. Curioso di sapere che ne pensi :)

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  2. Da appassionato del genere conto di recuperarlo al più presto.

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    1. Dovresti, merita se non altro per il tentativo metacinematografico. E comunque è una visione molto piacevole con qualche guizzo.

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